PERI' TOU IDIOU DAIMONOS
di Lucia Bellizia

Angels are bright still,
though the brightest fell.

William Shakespeare, Machbeth
(Atto IV, Scena III)



Attorno al 310 fu composto un trattato intitolato Ἀbámmwnoj didáskalou pròj tὴn Porfurίou pròj Ἀnebὼ ἐpistolὴn ἀpόkrisij kaὶ tῶn ἐn aὐtῇ ἀporhmátwn lύseij (Abámmonos didáskalou pròs tèn Porfuríou pròs Anebò epistolèn apókrisis kai ton en autè aporématon lúseis) e cioè “Risposta del maestro Abammone alla lettera di Porfirio ad Anebo e soluzioni delle questioni poste in essa” (1); Abammone (2) parrebbe esser quindi l’autore e “Risposta alla lettera di Porfirio ad Anebo....” il titolo. Tale opera viene però generalmente attribuita al filosofo neoplatonico greco Giamblico e chiamata De mysteriis Aegiptiorum (I misteri degli Egiziani). Il cambio di paternità e di intestazione del trattato hanno una curiosa storia: già prima di donare nel 1468 alla città di Venezia la sua ricca collezione di libri (che avrebbe costituito il patrimonio iniziale della Biblioteca Marciana), il cardinale ed umanista bizantino Basilio Bessarione (1408-1472) pose di pugno, sul margine superiore del foglio iniziale di uno dei primi manoscritti, in cui il trattato era stato trascritto, questa annotazione: “Di Giamblico il grande alla lettera di Porfirio”. Questa attribuzione è stata fedelmente riportata in tutti i codici che da questo discendono. Nel 1497 fu edita a Venezia una traduzione in latino del trattato, a cura del filosofo ed umanista Marsilio Ficino (1433-1499), che recava il titolo (3) Giamblico sui misteri degli Egizi, Caldei, Assiri [...]. Nel 1556 il monaco agostiniano Nicola Scutellio pubblicò una seconda traduzione latina (4) intitolata Giamblico sui misteri degli Egiziani [...]. Giamblico fu dunque creduto l’autore nel periodo umanista; e a Scutellio si deve il titolo definitivo De mysteriis Aegiptiorum, anche se nell’opera gli Egizi non hanno poi un ruolo determinante: compaiono solo nei libri VII ed VIII e il filologo Sodano ritiene che nello scegliere quest’intestazione si volle andare incontro ad una certa moda rinascimentale, che tendeva ad una concreta rivalutazione della mistica egiziana, resa più fascinosa dalla simbologia geroglifica (5). Lasciamo però ora da parte la vexata quaestio del donde il Cardinal Bessarione e gli altri abbiano tratto il proprio convincimento e se l’autore sia davvero Giamblico, che fingeva di essere il sacerdote egiziano Abammone, o realmente quest’ultimo (6): ci preme invece attirare l’attenzione del lettore sul fatto che il trattato costituiva la risposta ad una lettera scritta ad Anebo da Porfirio. Questa lettera è andata perduta: nei manoscritti che contengono il De Mysteriis è sempre presente uno scolio anonimo, che ci informa il suo autore stava rispondendo alla lettera che precedeva: lo scriba aveva insomma raccolto in un unico corpus i due trattati, ma del primo non c’è più traccia. Per fortuna ce ne sono giunte per via indiretta numerose testimonianze di antichi scrittori (Eusebio, Sant’Agostino, San Cirillo), che hanno permesso a Sodano (7) di ricostruirne con molta verisimiglianza le linee generali.

Porfirio: la Lettera da Anebo

Era Porfirio (Fig. 1) un fenicio ellenizzato, per essere nato a Tiro nel 234 ed aver studiato ad Atene: il suo nome era Malchos (“re”), ma il suo maestro di retorica, il filosofo Cassio Longino, lo chiamò Porfirio e cioè rivestito della porphyra (la porpora), che è il segno esteriore della regalità (8). Nel 263 si recò a Roma per seguire i corsi del filosofo Plotino (203/205-270), scolarca della scuola neo-platonica, che lo ebbe in così grande considerazione da chiedergli di riordinare e pubblicare i suoi scritti (le Enneadi) ed una sua biografia. Filosofo e retore, si occupò anche di religione, matematica ed astrologia. Tra il 268 ed il 270 scrisse in greco la Εἰσαγωγή (Eisagoghé Introduzione), che fu tradotta in seguito in latino dal filosofo romano Boezio (475-525) e si pose come il testo principe della Logica fino a tutto il Medioevo. Allo stesso periodo appartiene l’opera Κατά Χριστιανῶν (Katá Kristianón Contro i Cristiani), della quale non rimangono che frammenti, poiché il testo fu fatto pubblicamente bruciare sul rogo nel 448, per ordine degli imperatori Valentiniano III e Teodosio II. Alla morte di Plotino nel 270 ne prese il posto come scolarca ed ebbe probabilmente come allievo verso il 275 Giamblico. Morì forse nel 305 a Roma.


Fig. 1: Conversazione tra il filosofo islamico Averroè
(in basso a sinistra) ed il filosofo Porfirio.
Illustrazione tratta dal Liber de herbis et plantis
di Manfredi di Monte Imperiale (1330/1340 ca).
Bibliothèque Nationale de France, Paris.

La Porfurίou ἡ pròj Ἀnebὼ ἐpistolή, la Lettera ad Anebo, persona reale - uno dei tanti sacerdoti del culto egiziano (9) - o forse personaggio fittizio, che adombrava l’intenzione dell’autore di chiamare in causa più in generale gli esponenti dell’indirizzo misterico-teurgico di tale culto, che tanta fortuna aveva in Roma ai tempi di Plotino, fu scritta durante il primo soggiorno di Porfirio a Roma (263-268) e si divideva probabilmente in due libri (10): le questioni poste allo ierogrammateus riguardavano due problemi filosofici: la teologia e la teurgia e cioè da una parte il problema delle ipostasi divine, delle loro essenze e delle loro peculiarità, dall’altra quello del rapporto dell’uomo con la divinità. Porfirio, indirizzandosi ad Anebo si ripromette di chiarire alcuni dei dubbi di quest’ultimo e di porgli per contro degli interrogativi. In particolare, per quanto riguarda la prescienza del futuro, esamina le forme a mezzo delle quali essa possa essere raggiunta: vi è la mantica durante il sonno e cioè a mezzo di sogni; altri conoscono il futuro da svegli, in stato di invasamento divino (ἐnθousiasmój), indotto magari dall’ascolto di flauti o cimbali o timpani o di una determinata melodia, come quelli che sono in estasi coribantica (11); un’altra specie è l’ispirazione profetica degli oracoli; alcuni prevedono il futuro dopo aver bevuto una particolare acqua, come il sacerdote di [Apollo] Clario a Colofone o stando seduti presso l’apertura di antri, come le sacerdotesse di Delfi o aspirando i vapori di determinate acque, come le profetesse di Branchide; altri ancora, tenendo i piedi poggiati su characteres (12); altri ancora con la cooperazione del buio o di particolari bevande o di incantesimi e preghiere hanno delle visioni sull’acqua o su una parete; esiste infine una mantica per mezzo della scienza umana e cioè mediante l’osservazione delle viscere degli animali uccisi, o del volo degli uccelli o degli astri. Tutte queste forme di mantica, escluso l’ultima, presuppongono la mediazione degli dei o di demoni o di angeli o di altri esseri superiori, che sarebbero costretti in alcuni casi a dare il loro responso dalla forza dell’invocazione. Circostanza sulla quale Porfirio dichiara essere scettico e comunque in disaccordo. Un’altra causa della divinazione potrebbe essere invece quella per cui l’ispirato fa le sue rivelazioni grazie alla propria facoltà immaginativa: sarebbero dunque passioni della nostra anima, che vengono risvegliate da piccole scintille (ἐk mikrῶn aἰθugmátwn), una terza infine quella per cui le rivelazioni hanno luogo per un insieme delle due cause prima esposte: si forma cioè una specie di ipostasi composta dalla nostra anima e dall’ispirazione che viene dalla divinità. Tra le possibili spiegazioni della mantica, conclude Porfirio dopo la disamina, vanno rigettate quelle che postulano che essa sia qualcosa di umano: essa affluisce dall’esterno per un intervento divino. E nessun essere superiore può essere forzato ad apparire o a compiere azioni ingiuste, quali che siano le minacce o ἀnágkai (13) loro rivolte. Come pure è insensato invocarli con nomi in lingue straniere, quasi che il dio intenda o si serva di una lingua particolare. La lettera giunge al punto 2, 12 della ricostruzione di Sodano ad un argomento assai interessante: l’autore si interroga su quale gli Egiziani ritengono essere la causa prima di tutte le cose, corporea od incorporea, se essa sia sola o insieme con un’altra. Cheremone (14) e tutti gli altri (...) affermano nella trattazione della causa prima che gli dei degli Egiziani nient’altro sono se non i cosiddetti pianeti e quelle costellazioni le quali formano lo Zodiaco e quanti astri sorgono vicini a questi, e le sezioni dei decani e gli oroscopi e i cosiddetti krataioì ἡgemónej (15), dei quali nei Salmeschianicá (16) son citati i nomi e le guarigioni dei mali e le levate e i tramonti e le predizioni del futuro. Vedeva, infatti, che coloro i quali affermavano essere il Sole il creatore [dell’universo] applicavano non soltanto i misteri di Osiride e di Iside, ma anche tutti i miti sacri o agli astri, al loro sorgere, tramontare e levarsi, o agli aumenti e diminuzioni della Luna o al corso del Sole, o all’emisfero notturno o a quello diurno, o al fiume [Nilo] e insomma, riferivano tutto a cause fisiche e niente ad essenze incorporee e animate. E di essi la maggior parte faceva dipendere dal movimento degli astri anche la determinazione della nostra libera volontà, tutto vincolando, non so come, ai nodi indissolubili della necessità, che chiamano eἱmarménh, e tutto riportando a questi dei, che venerano nei sacri riti, nelle statue e in altri modi, come i soli liberatori dalla eἱmarménh (17). Fatta questa premessa passa poi a trattare la questione del demone personale (tὴn ἀporían perì tou ἰdoioῦ daímonoj) e cioè di quel demone dato a ciascun uomo come genio tutelare; sottolinea inoltre che Anebo, non solo non si chiede quale sia l’essenza di questo demone, ma preferisce operare secondo natura ovvero ricorre alla genetlialogia; e non si serve nemmeno di tutti gli elementi di giudizio di quest’ultima [decani, liturgi (18), segni dello Zodiaco, astri, Sole, Luna etc.], bensì del solo pianeta oikodespótês, interrogandosi in che modo esso assegni il demone personale; sostiene anzi che felice sarebbe colui che conosciuto il demone che governa la propria genitura cercasse di allontanare con sacrifici il proprio fato. Uno è questo demone, dice Porfirio, e da solo presiede al corpo in tutte le sue parti e la vera felicità è quella di chi ricerca attraverso la gnosi l’unione col dio, per elevarsi spiritualmente e non certo per ottenerne dei favori materiali.
Come dicevamo, il testo è stato ricostruito grazie alle citazioni di altri autori, in primis quello del De Mysteriis. Quando Sant’Agostino (354-430), il gran padre della Chiesa, lo lesse, vide in esso solo l’intento di dimostrare quanto fossero erronee le pratiche rituali pagane. Avvertiva infatti la dissonanza tra questa e le altre opere di religione e di teologia scritte da Porfirio, delle quali era profondo conoscitore. Una sorta di ripensamento insomma. Lo stesso accadde ad altri Padri della Chiesa e lo scritto di Porfirio venne, in un momento di scontro religioso-dogmatico tra la fede cristiana e il paganesimo, usato come arma contro i suoi stessi correligionari. Non fu colto in esso il travaglio, il lavorio interiore di un uomo che nei dubbi cercava una via, dopo aver frequentato Plotino, esser stato testimone della sua condotta di vita ed aver ascoltato i suoi insegnamenti.
Assai differisce infatti La Lettera dal Perì tῆj ἐk logíwn filosofíaj (Sulla filosofia tratta da oracoli), altra opera giovanile del filosofo di Tiro, nei cui frammenti non figura alcuna traccia della dottrina plotiniana, i nomi degli dei vengono riportati secondo il rituale comune e non vengono spiegati gli oracoli dalla filosofia, bensì la filosofia dagli oracoli (19). Richiamandosi infatti ad un oracolo di Apollo, Porfirio fa suo tutto un complesso ordinamento teologico: gli dei si dividono in sotterranei e che vivono invece sulla terra, in aerei e marini, in celesti e di natura eterea e per ciascuno di essi occorrono specifici sacrifici. Essi appaiono agli uomini ed insegnano loro attraverso quali rituali vogliono essere onorati, ma il teurgo può forzarli ad ubbidire ai suoi voleri mediante formule, le ἀnágkai. Esistono anche gli angeli e i demoni, tutte ipostasi divine, cui sono assegnati compiti differenti. Magia, eἱmarménh, divinazione, astrologia (gli stessi dei predicono il futuro mediante oracoli in cui ci si richiama alla posizione delle stelle) figurano qui non disgiunte dalla teologia e sono da Porfirio considerate strumenti di elevazione spirituale. Tutte queste certezze mancano nella Lettera ad Anebo.
Ma tra queste due opere e la diversa impostazione di questioni analoghe si colloca il soggiorno del loro autore a Roma e la sua frequentazione della scuola di Plotino (Fig. 2), che fu uno dei più importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo. Esercitò questi sul suo allievo innanzitutto un’influenza psicologica con la sua bontà grave ed austera, con l’elevazione delle proprie idee, col proprio rigore morale, con il fuoco della parola, il disinteresse ed una spiccata attitudine a penetrare i caratteri umani (20).


Fig. 1: Conversazione tra il filosofo islamico Averroè
Fig. 2 - Filosofo (Plotino?), fine III sec. d.C.,
Ostia, Museo Ostiense

Il cenacolo del quale era a capo si componeva di iniziati, che meditando sui libri di filosofia e conducendo una vita di rinunzia, attendevano che la morte permettesse alla loro anima di ritornare nel seno dell’Essere eterno. Anche presso Plotino tuttavia girovagavano maghi e teurgi, se è vero l’episodio dell’Iseion, narrato da Porfirio (21): un sacerdote egiziano si offrì di rendere visibile al filosofo il demone che l’assisteva. Plotino acconsentì e l’evocazione fu fatta nel tempio di Iside, l’unico luogo puro che ci fosse a Roma; ma invece di un demone apparve un dio, quindi un’entità di specie superiore. Porfirio conclude il racconto dicendo che Plotino trasse spunto dall’accaduto per scrivere il trattato Sul Demone che ci ha avuto in sorte, in cui si portano le ragioni della differenza tra i vari demoni che assistono gli uomini. La questione era dunque all’epoca di grande attualità ed oggetto di discussioni animate tra maghi, filosofi, teurgi ed astrologi. Plotino indusse Porfirio con la luce del suo spirito a riflettere, a meditare e a prendere in qualche modo le distanze dalle credenze orientali, che erano state alla base della sua formazione culturale prima di giungere a Roma. La concezione del demone personale che egli eredita dal maestro è quella di un io puro che si eleva, in una sfera di assoluta razionalità, sulle forze che operano nella nostra vita (22).

Giamblico: la risposta di Abammone

Controversa, come accennavamo, è la questione se l’autore del De Mysteriis sia realmente il sacerdote egiziano Abammone o piuttosto Giamblico (245-325), che avrebbe scritto fingendo di esser quest’ultimo o servendosi di uno pseudonimo. Fu questo filosofo nativo di Calcide in Siria ed allievo di Porfirio alla scuola neoplatonica di Roma, che diresse dopo la di lui morte; si allontanò comunque dall’insegnamento del maestro, abbandonando il neo-platonismo puramente intellettuale di Plotino a favore di una filosofia religiosa, che includeva miti, rituali e formule magiche. Nel 313 fondò poi ad Apamea (Fig. 3) una propria scuola, che tentò di fondere le idee di Platone, quelle di Pitagora, l’Ermetismo e la letteratura magica in un sistema unico e coerente. Il prof. Sodano ad ogni modo non gli riconosce la paternità del De mysteriis e conclude che esso sia stato invece il prodotto di un’intellighenzia disperata che cercava con ogni mezzo di salvare le istanze del paganesimo, di un’équipe di difensori degli antichi ideali ellenici, che si avviava tuttavia alla superstizione ed alla mistica teurgica (23).


Fig. 3 - Rovine di Apamea (Siria)

Nel trattato De Mysteriis abbiamo la replica alla Lettera ad Anebo. Il genere letterario è quello degli zetemi e cioè delle aporie e delle soluzioni. Ai dubbi espressi nella Lettera si incarica di rispondere Abammone, maestro e profeta, sacerdote più alto dunque in grado di Anebo, come a dar maggior vigore alle dichiarazioni che farà. Il trattato consta di dieci libri, nei quali (in estrema sintesi) viene dichiarato:
- nel primo che le risposte verranno date con l’ausilio delle dottrine teologiche dei sapienti della Caldea e dei profeti d’Egitto o degli insegnamenti di Ermete, che già Platone e Pitagora studiarono, costituendone la loro filosofia; che tra gli esseri superiori, che sono tutti incorporei, oltre agli dei vanno annoverati i demoni, gli eroi e le anime pure, secondo un grado perfezione discendente; gli dei riempono di sé tutto l’universo, non sono soggetti a passioni e sono tutti buoni;
- nel secondo quali sono i segni della presenza di dei, arcangeli, angeli, demoni, eroi, arconti, anime (forma, aspetto, bellezza, splendore etc.), quali doni recano; come si riconoscono le apparizioni menzognere;
- nel terzo che divina è l’origine della divinazione nelle sue varie forme: sogni, possesso divino, trance, estasi, oracoli; divina è anche l’origine di forme di mantica quali l’osservazione delle viscere degli animali uccisi, del volo degli uccelli e degli astri, in quanto sono gli dei ad inviare dei segni; alla divinazione sono presenti dei, angeli e demoni; la divinazione mediante characteres è da considerarsi illegittima; la fabbricazione di immagini è artificiosa ed inutile;
- nel quarto che gli dei non possono ricevere ordini, ma che esistono spiriti che non hanno né ragione né giudizio e su di essi si può avere dominio mediante simboli divini; che gli dei non possono commettere ingiustizia né prestarsi a desideri illeciti;
- nel quinto che i piaceri del corpo influenzano l’anima degli uomini, non gli dei; i sacrifici agli dei sono necessari, perché senza di essi non cesserebbero le pestilenze e le carestie, né si otterrebbero piogge, né, cosa più importante, ci sarebbe la catarsi dell’anima e la sua liberazione dal divenire; la preghiera avvicina al divino e rafforza l’azione dei sacrifici;
- nel sesto che gli animali per il sacrificio si dividono in sacrileghi e consacrati; la divinazione mediante animali sacri riguarda i demoni, ma è imperfetta; le minacce non riguardano gli dei;
- nel settimo quali sono i simboli degli Egiziani: il dio che sta sopra il fango, seduto su un fiore di loto, il dio Sole sulla barca, lo Zodiaco; che agli dei è gradita l’invocazione con nomi egiziani;
- nell’ottavo quale sia la dottrina secondo gli Egiziani sulla causa prima dell’Universo; come le teorie di Cheremone non ne siano che una parte; che non tutto è stretto nei vincoli della fatalità, in quanto l’uomo ha due anime, una delle quali è divina e si può elevare al divino mediante la teurgia;
- nel nono cosa sia il demone personale, quali le dottrine al riguardo;
- nel decimo come la via alla felicità consista nell’unione teurgica col dio.

I capitoli che ci interessano sono ovviamente gli ultimi e sul loro contenuto ci fermeremo con qualche breve precisazione. Nel nono viene affrontata la questione del demone personale, che viene definita complessa e soggetta ad obiezioni varie: in breve due sono le dottrine, l’una lo considera oggetto della teurgia ed invoca cause superne, l’altra della genetlialogia e ricorre all’osservazione dei corpi celesti. Ma servirsi di quest’ultima, afferma l’autore del De Mysteriis significa fare una vana ricerca, in quanto questo demone non viene assolutamente dalla propria genitura e se anche così fosse, visto che rappresenta il fato, nessun sacrificio sarebbe sufficiente a scongiuralo. Questo non significa che la scienza astrologica nel suo insieme non abbia validità, anzi le si oppone chi non la conosce; in particolare poi, per quanto riguarda l’oikodespótês, sono stati tramandati metodi precisi per scoprirlo: gli astrologi infatti insegnano alcuni cinque elementi, altri più, altri meno di cinque per distinguerlo esattamente. Solo che non ha nulla a che fare col demone personale, che può esser conosciuto invece attraverso l’ausilio della divinazione sacra o della teurgia. Questa entità esiste ancor prima che le anime scendano in questo mondo e quando un’anima ne ha scelta una per guida, subito essa la lega al corpo e comincia ad amministrare la vita del nuovo nato (viene qui riecheggiato il mito di Er, di cui parleremo più avanti): questo accade fin quando noi non preponiamo, mediante la teurgia ieratica, un dio all’anima perché la sorvegli e ne sia il signore. Allora il demone o cede dinnanzi al dio o gli si sottomette e coopera con lui. L’opera si chiude con l’affermazione, nel decimo capitolo, che l’unione col dio rende felici: negli dei c’è solo bontà ed essi rivelano il futuro soprattutto per mettere l’uomo al riparo dei pericoli della natura. Lo liberano così dalle catene del fato. Fin qui il De Mysteriis.

Il demone

Se ci chiediamo quali siano i precedenti nel mondo greco di questa singolare opinione e cioè che vi sia un nume, che sin dalla nascita, governa il destino dell’uomo, scopriremo che essa affonda nella religiosità arcaica. La parola daímwn è riconducibile al verbo daíomai, che significa dare a ciascuno la sua parte (in un banchetto) e significa quindi colui che assegna. Nel VII secolo a.C. Esiodo, nelle Opere e i giorni (24) dice che gli uomini della prima stirpe umana, la aurea dei tempi di Crono, dopo la morte si sono trasformati in nobili demoni, custodi dei mortali (φύλακες θνητῶν ἀνθρώπων); quelli della seconda, l’argentea, assai peggiore della prima, sono divenuti i mortali beati sotterranei; quelli della terza, la bronzea, si sono estinti per la loro malvagità. Che seguì ad essa una migliore, quella degli eroi, molti dei quali furono trasportati da Zeus nelle Isole dei Beati, quale premio per il loro coraggio; che ora siamo nell’età del ferro e quest’ultima stirpe vive nella sofferenza e nell’ingiustizia. La classe demonica, costituita dagli spiriti dei morti e custode dei viventi fa dunque la sua comparsa in epoca molto antica; in Esiodo ritroviamo poi la parola daímwn usata anche nel senso di sorte. Così infatti il poeta si esprime:

δαίμονι δ᾽ οἷος ἔησθα, τὸ ἐργάζεσθαι ἄμεινον
Quale che sia il tuo destino, è meglio lavorare
(Le opere e i giorni, v. 314)

Talete di Mileto (640/625-547 a.C. ca.), uno dei sette savi, generalmente considerato il primo filosofo della storia occidentale, credeva nell’esistenza di un dio, di demoni e di eroi: il dio è la mente (noῦj) dell’universo, i demoni sono essenze (oὐsíai), esseri puramente spirituali e gli eroi sono invece le anime degli uomini e possono essere buone o malvage. Questo perlomeno è quanto riferisce l’apologista greco Atenagora di Atene (133-190 ca.) nella sua supplica tesa a difendere i cristiani dalle accuse di ateismo, incesto e cannibalismo. Talete, dice, sarebbe anzi stato il primo, come raccontano coloro che meglio hanno approfondito la sua dottrina, ad operare questa distinzione (25). Nel Libro VIII delle Vite dei Filosofi lo storico greco Diogene Laerzio (180-240) dice che, secondo Pitagora (570-495 a. C. ca.), l’aria è tutta riempita di anime ed esse son chiamate demoni o eroi ed inviano i sogni ed i presagi della malattia e della salute, non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli animali; e ad esse sono dirette purificazioni, espiazioni, la mantica tutta, le invocazioni et similia. Il più gran privilegio che l’uomo ha è quello di poter inclinare l’anima al bene o al male. Sono felici gli uomini quando è toccata loro una bella anima (26). congenita e non introdotta dall’esterno”. Il grande Platone (428-348 a.C.) nelle Leggi (27), afferma che l’uomo saggio onorerà in primo luogo gli dei dell’Olimpo e quelli della città, in secondo gli dei ctonii, in terzo i demoni; e poi gli eroi, gli dei degli antenati ed inoltre i genitori, sia che sian vivi sia che sian morti. Nel Simposio presenta invece la figura del demone Eros (Fig. 5): ad un banchetto (donde il titolo di Sumpósion Convivio), offerto dal poeta tragico Agatone per festeggiare la propria vittoria in un agone poetico del 416 a.C., viene chiesto agli invitati presenti, uno dei quali è Socrate, di tenere un discorso nel quale si elogia Eros (Fig. 4). Quando arriva il suo turno Socrate (28) riferisce il discorso che aveva un giorno ascoltato sull’argomento dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea, donna sapiente al punto tale da consigliare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l’epidemia di peste (29). Orbene Diotima diceva che Eros è un grande demone e che come tale si colloca a metà tra il divino e il mortale. Egli interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose (sofój) è vicino al potere dei dèmoni (daimónioj ἀnήr), mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros (30). Dunque il sofój l’uomo che sa, il filosofo esperto di cose divine, è uomo demonico e può elevarsi fino a raggiungere il divino e questa è la vera felicità.


Fig. 4 - Eros che incorda l’arco
Copia antica di scultura di Lisippo in marmo
Roma, Musei Capitolini

Platone adotta nella definizione di demone lo schema essenza - poteri - attività, che ritroveremo fedelmente rispettato del De Mysteriis, nel passo (31) in cui l’autore enuncia come vanno descritte le caratteristiche degli esseri superiori. Precisata infatti la natura dei demoni, ne illustra la funzione: porsi come collegamento e creare continuità tra la sfera celeste e quella terreste, che sarebbero altrimenti troppo distanti e differenti per entrare in comunicazione; gli dei infatti non si mescolano agli uomini ed è attraverso i demoni che colloquiano con loro. Nella speculazione filosofica, col passare del tempo le due sfere si allontaneranno sempre più ed aumenterà di conseguenza il numero degli intermediari e in Giamblico ai demoni ed agli eroi si aggiungono entità proprie dei sistemi giudaici e gnostici: arcangeli, angeli, arconti cosmici e materiali (32). Anche il nesso tra demoni ed arte mantica rimarrà vivo e il daímon farà sempre da tramite negli oracoli ed in altre forme di divinazione. Esso è presente anche nei filosofi stoici: M. Tullio Cicerone (106-43 a.C.) nel De divinatione (33) riporta che Posidonio di Apamea (II-I sec. a.C.) riteneva che gli uomini sognassero per impulso divino, in tre modi: nel primo in quanto l’animo prevede di per sé, poiché è unito da parentela con gli dei; nel secondo perché l’aere è pieno di anime immortali (esseri demonici), nelle quali i segni del vero appaiono come impressi; nel terzo perché gli dei stessi colloquiano con i dormienti.
Proprio lo spirito di Platone avrebbe inoltre ispirato al filosofo medio platonico Giuliano il Teurgo gli Oracoli Caldaici, una raccolta di rivelazioni sapienziali scritta verso il 170 in esametri dattilici, della quale non residuano che frammenti. Il Lessico Suda (34) dice che era figlio di Giuliano il Caldeo [autore di quattro libri sui demoni] e che aveva scritto Θeourgiká, Telestiká, Logía diἐpῶn (Theurghikà, Telestikà, Logía diepôn Opere divine, riti misterici e oracoli in versi epici).


Fig. 5 - La teurgia è un système religieux qui nous fait entrer en contact avec les dieux,
non pas seulement par la pure élévation de notre intellect vers le Noûs divin,
mais au moyen de rites concrets et d'objets matériels.
André-Jean Festugière, La révélation d'Hermès Trismégiste, t. III, 1953, p. 48.

Fu chiamato Teurgo in quanto sembra abbia coniato il termine teurgia (qeurgía theurghía), che sta ad indicare questa pratica religiosa, volta a realizzare l’unione mistica col divino: attraverso un insieme di pratiche rituali (telestiké), che si servivano di gesti, simboli, formule, nomi pronunciati spesso in lingue barbare, veniva evocata una divinità, che andava poi ad inserirsi in un essere inanimato (ad es. una statua) o in un essere umano (il docheus) e dava i suoi responsi o permetteva operazioni miracolose (Fig. 5). La sua opera ebbe notevole influenza sul Neoplatonismo e quindi sui citati Porfirio, Plotino e Giamblico.

Il demone personale (ὁ ἴdioj daímwn)

Da quanto abbiamo finora esposto appare chiaro che nell’immaginario collettivo greco ai demoni era affidato il compito di custodire i viventi: dapprima il loro compito si rivolgeva ad una collettività indeterminata, poi si fa strada l’idea che ogni singolo uomo abbia il proprio. In un frammento del compositore e filosofo Aristosseno di Taranto (360-300 ca. a. C.), che ha titolo Massime pitagoriche e che viene riportato dallo scrittore bizantino del V secolo Giovanni Stobeo, si legge (traduzione a mia cura): “Dicevano (diceva) queste cose sulla fortuna (túχh): una qualche parte di essa è demonica, infatti ci sarà per alcuni degli uomini un’ispirazione (ἐpipnoía), che dal demone proviene, alle cose migliori o peggiori, e manifestamente vi sono per questo i fortunati e gli sfortunati; questo è oltremodo evidente, che i primi, pur facendo qualcosa senza riflettere e a caso, spesso hanno successo, mentre gli altri, pur avendo considerato prima ed avendo correttamente riflettuto, non hanno successo. Vi è poi un’altra specie di destino, secondo il quale nascerebbero alcuni dotati di buone qualità e sagaci, altri non dotati e con natura opposta, dei quali gli uni raggiungerebbero l’obiettivo cui si dedicano, gli altri fallirebbero lo scopo, non muovendosi mai il loro intelletto con accortezza, ma essendo invece sempre confuso. Questa mancanza di fortuna è congenita e non introdotta dall’esterno” (35). Insomma Pitagora e la sua scuola fanno notare che ci sarebbe per taluni un demone, che inclina al bene o al male, e all’essere fortunati o sfortunati a prescindere dall’impegno che si pone nelle cose. Nel frammento N° 119 di Eraclito leggiamo (36)

[ Ἡrákleoj ἔfh ὡj ] ἦqoj ἀnqrώpῳ daímwn
Il carattere è per l’uomo demone

Ma l’esempio meglio conosciuto di demone individuale è certamente quello di Socrate (470/469-399 a.C. ca.): ce ne parlano Senofonte (430/425-355 a.C. ca.) ed il già citato Platone, che furono suoi allievi. Secondo Senofonte (37) Socrate dialogava con un’entità che gli conferiva la stessa capacità divinatoria della Pizia; riceveva da essa sotto forma di parole chiarudite avvertimenti e segni, che indirizzavano le sue scelte non solo dal punto di vista morale, ma anche nelle vicende quotidiane. Nessun dubbio per lui che il demone socratico fosse qualcosa di sovrumano e con lui erano concordi i suoi contemporanei, che spesso interrogavano il filosofo per avere in realtà risposte dal suo demone (38).
Platone riferisce che Socrate (Fig. 6), nella difesa pronunciata in tribunale contro le accuse di empietà, attribuì proprio al consiglio di questa entità la decisione di non partecipare alla vita politica: era qualcosa di divino e di demonico (theîon ti kai daimónion), come una specie di voce, che ogni volta che si produceva, lo tratteneva da qualcosa che stava per fare (39). Il termine usato non è il sostantivo daímwn, bensì l’aggettivo daímonion, che sottintende il termine segno. E ancora, nel congedarsi dai giudici dopo essere stato condannato il filosofo ribadisce la sua fiducia in questo demone dicendo che la solita voce oracolare - la voce di qualcosa di demonico - che prima gli era continuamente vicina e si opponeva sempre, anche su cose di poco conto, se stava per fare qualcosa di non giusto, il segno del dio, non lo ha trattenuto né la mattina presto, mentre usciva di casa, né quando saliva in tribunale, né in nessun punto del discorso, mentre stava per dire qualcosa. Eppure molte volte, in altri discorsi, lo aveva addirittura interrotto; quel giorno invece, non gli si era mai opposto in nulla di quello che faceva e diceva. E conclude dicendo che quello che è successo ha l'aria di essere stato un bene e non è possibile che abbia ragione chi di noi pensa che morire sia un male. Egli ne ha avuto una grande prova: se quello che stava per fare non fosse stato un bene, il segno consueto non avrebbe mancato di trattenerlo (40). Il demone è quindi qui per Platone un’entità superiore non identificabile, che si manifesta a Socrate per preavvertirlo di un pericolo ed anche la sua mancata comparsa costituisce shmeíon segno.


Fig. 6 - Socrate (a destra)
Raffaello Sanzio - La Scuola di Atene (1509 -1511)
Roma, Palazzi Vaticani - Stanza della Segnatura

E nel Fedone (Faídwn), il dialogo nel quale Platone narra le ultime ore di vita di Socrate e nel quale si discute sull’immortalità dell’anima (41) leggiamo che quando uno muore, il demone che lo ha avuto in custodia per tutta la vita, ha l’incarico di condurre la sua anima in un luogo prestabilito, dove si raccolgono tutte le anime per essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il compito di accompagnarle, esse vanno verso le dimore dell'Ade. Poi, una volta subita la sorte loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito, un'altra guida le conduce nuovamente verso la terra, ma questo attraverso un vastissimo arco di tempo. Prima di iniziare un altro ciclo di vita mortale, devono però scegliere un nuovo demone personale: e di questo è detto nel famoso mito di Er, che Platone pone a chiusura de La Repubblica (Politeía), un’altra delle sue opere (42). Narra ancora una volta Socrate di un uomo valoroso, Er, figlio di Armenio, di origine panfilica: questi, dodici giorni dopo esser morto in battaglia, quando era già sulla pira, tornò in vita e raccontò quel che aveva visto nell’aldilà. La sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si era messa in viaggio con molte altre e si era trovata davanti ai giudici, che sedevano nel mezzo di due coppie di voragini continue, le une verso l’alto, le altre verso il basso. I giusti venivano inviati verso il cielo, gli ingiusti venivano precipitati. Giunto il suo turno, gli fu detto di osservare tutto qual che accadeva, per riferirlo poi agli uomini. Dalla voragine celeste a sinistra e dalla voragine terrestre a destra uscivano altre anime, le une pure e le altre sporche e impolverate, reduci da un viaggio di mille anni in cielo o sottoterra. Il viaggio sotterraneo era un temporaneo viaggio di espiazione, nel quale ogni ingiustizia commessa in vita veniva pagata con dolori decuplicati rispetto a quelli provocati. Con una misura analoga le azioni giuste venivano compensate. A questa regola fanno però eccezione i tiranni, la cui pena dura per sempre. Dopo sette giorni di permanenza in quel luogo, le anime furono fatte camminare per quattro giorni, finché non giunsero in vista di una luce simile all'arcobaleno, che teneva insieme tutta la circonferenza del cielo. Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke, la divinità che rappresenta la necessità o il destino ineluttabile: il fusaiolo, che è il contrappeso che lo mantiene a piombo, era formato da otto fusaioli, messi uno dentro l'altro, e ruotanti in direzioni opposte sull'asse del fuso. Su ogni cerchio stava una Sirena, che emetteva un'unica nota, e le diverse Sirene tutte insieme producevano ruotando un'armonia (che è quella delle sfere celesti).


Fig. 7 - Le tre Parche
Bernardo Strozzi (inizi XVII secolo) - Olio su tela.
Chiavari (Genova), Galleria Civica di Palazzo Rocca

Gli otto fusaioli rappresentano gli otto cieli concentrici della cosmologia antica, nell'ordine pitagorico: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Venere, Sole e Luna. Il fuso girava sulle ginocchia di Ananke. Le tre Parche (Fig. 7) sedevano in cerchio su tre troni a uguale distanza; esse sono figlie di Ananke: Cloto, la filatrice, canta il presente, Lachesi, la distributrice, il passato, e Atropo, colei che non può essere dissuasa, l'avvenire. Appena le anime giunsero lì, un araldo di Lachesi le mise in fila e disse loro che non sarebbe stato un demone a scegliere loro, bensì viceversa, ognuna di esse avrebbe dovuto sceglierne uno e cioè una nuova vita e se ne sarebbe assunta quindi la responsabilità. Venne quindi sorteggiato l’ordine di scelta e vennero proposti numerosi paradigmi di vita: di animali, di uomini, di donne, di tiranni, di successo o fallimentari, di persone oscure o insigni (saper optare per una vita giusta e scartarne una ingiusta, osserva Socrate, è importante, per raggiungere la massima eudaimonia).
Ogni anima, dopo aver eletto il proprio demone, basandosi anche sulle esperienze maturate nelle precedenti vite, si presentò a Lachesi, che glielo assegnò come custode; il demone la condusse allora a Cloto, che rende irrevocabile l’abbinamento e infine da Atropo che rende il destino immutabile. A sera, si accamparono tutte presso il fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta in nessun vaso. Poi furono costrette a bere una certa quantità di quell'acqua e dimenticarono ogni cosa. Dopo che si furono addormentate, nel cuore della notte scoppiò un tuono e un terremoto, e all'improvviso esse si levarono da lì per correre chi in una, chi in un'altra direzione verso la nascita, filando veloci come stelle. Ma a Er fu impedito di bere l'acqua; non sapeva come e per quale via fosse tornato nel corpo, ma all'improvviso riaprì gli occhi e si vide disteso all'alba sulla pira.
Attraverso la narrazione di questo mito Platone concilia dunque il libero arbitrio con il valore religioso del destino, che, anche se non ce ne ricordiamo più, fummo proprio noi a scegliere.

L’oikodespótês

Il tema del destino e dell’anima è stato dunque, prima nel mondo greco e poi in quello ellenizzato, sempre dibattuto e con approcci diversi: filosofico, mistico-teurgico, magico e non ultimo astrologico. I neo-platonici erano, come abbiamo visto, scettici sulla possibilità di individuare le caratteristiche dell’ídion daímon con metodi diversi da quelli loro propri, gli astrologi greci avevano invece elaborato delle tecniche loro proprie al riguardo: lo testimonia lo stesso De Mysteriis nel libro nono, affermando che essi avevano metodi precisi per scoprire l’oikodespótês ed accennando all’esistenza di cinque o più elementi utili ad individuarlo.
Facciamo innanzitutto chiarezza sull’etimologia di questa parola: oἰkodespóthj si compone delle parole oἶkoj (oikos casa) e despóthj (despótes padrone) e significa dunque letteralmente padrone di casa. Come termine tecnico tuttavia oikodespoteia non designa una potestas limitata all’oikos o domicilio dell’astro. Paolo d’Alessandria, il cui floruit si può collocare nella seconda metà del IV sec., non usa mai questo termine per indicare il pianeta che ha un diritto o dominio su un segno dello Zodiaco, come Marte sull’Ariete e lo Scorpione o Venere sul Toro e sulla Bilancia. Per designare infatti il signore del domicilio si serve del termine oikodektôr, quello dell’elevazione del termine hypsôkratôr, quello dei confini del termine horiokratôr, quello del triangolo del termine trigônokratôr (43). L’oikodespoteia indica invece una potestas che si compone di più fattori ed appartiene all’astro che ha diritti verso questo o quel luogo del tema. Oikodespótês può quindi essere tradotto con signore ed oikodespoteia con signoria.
In Tolemeo il termine d’altronde appariva proprio con questo significato: trattando nella Tetrábiblos della suddivisione dell’astrologia genetliaca (44), il maestro alessandrino raccomanda di cercare nell’esame della genitura il significatore e cioè il punto dello Zodiaco che corrisponde al problema di volta in volta affrontato [ad esempio il Medio Cielo per le attività professionali, oppure la posizione del Sole per il padre] e di individuare poi i pianeti che hanno con esso relazione di governo “secondo i cinque criteri già elencati”. Il termine usato per relazione di governo è oikodespoteía. Quanto ai cinque criteri se ne trova l’elenco nel capitolo immediatamente precedente Il grado ascendente (45), dove è detto che governa tale grado il pianeta che possiede i cinque requisiti seguenti: trigono (triplicità), domicilio, esaltazione, confine, figura (aspetto o configurazione); anche qui troviamo i termini oikodespoteía, oikodespótein, oidespotikós ad indicare il governo. Non diversamente si esprime l’egiziano Retorio, l’ultimo grande astrologo del periodo classico (che visse probabilmente nel sesto/settimo secolo) nel cap. 33 Perì oikodespótou dell’Intepretazione e spiegazione di tutta l’arte astronomica tratta dai Thesauroi di Antioco: “Viene detto oikodespótês (un astro) qualora abbia il maggior numero di diritti di signoria in uno dei segni: intendo del domicilio, dell’esaltazione, della triplicità, del confine, della fase o configurazione” (46).
L’oikodespótês è dunque il pianeta che ha l’influsso predominante e con la propria natura essenziale ed accidentale (47) presiede agli eventi di cui si cerca la previsione. Esso va ricercato tra Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; ma non tra i luminari, che entrano comunque in quasi tutti i giudizi per la loro grande importanza. Questo il significato generale del termine; nel comparto principe della genetlialogia e cioè quello della durata della vita, esso ne assume invece un altro più specifico: designa cioè l’astro che ha signoria sull’afeta.
L’aphétês è il significatore della vita: esso, a sentire Tolemeo, fa nel procedere secondo moto diurno lungo la propria strada, incontri favorevoli o sfavorevoli; il limite ultimo di questa strada è quello del compimento naturale della vita umana. Può essere che un incontro particolarmente negativo ponga fine alla vita prima di tale compimento. La quantità della vita non dipende quindi dalla condizione dell’afeta nella genitura, ma dai suoi incontri nei tempi successivi, in particolare con l’anereta. Ma lo stesso maestro alessandrino premette introducendo l’argomento (48), che il metodo da lui scelto è quello che gli è apparso come il più acconcio, ma che la dottrina dei tempi di vita non ha un’ordinazione semplice, né assoluta. Per altri autori infatti l’oikodespótês in quanto astro che ha dominio sull’afeta, significa, secondo la propria natura e secondo la propria condizione accidentale nella singola genitura, la quantità della vita in potenza. Ad esso competono gli anni di vita dell’uomo. Ad esempio il poeta astrologico Antioco di Atene, il cui il floruit si collocherebbe nella seconda metà del II sec. (49) e della cui opera furono realizzate ampie parafrasi, nel 3° capitolo del II Libro degli ’Eἰsagwgikά (Eisagôgiká) trattava - a leggere un epitomatore bizantino (50) - del signore (kúrioj) della genitura e del dominatore (oἰkodespóthj), affermando, secondo la dottrina del re Nechepso, col quale Petosiride concorda, che all’oikodespótês è legato il tempo della vita (tòn zwtikòn χrónon) degli uomini, al kyrios il genere di vita e quel che in essa accadrà (51). E Paolo d’Alessandria, astronomo e astrologo, colto egiziano ellenizzato che operò nella seconda metà del IV sec., precisa al riguardo nel cap. 36 della sua Eἰsagowgὴ ἀstrologíaj (Eisagoghè astrologhías Introduzione all’astrologia) che quanto vivrà chi ha avuto in sorte una determinata genitura viene mostrato dall’astro, che è detto dominatore (oikodespótês) e che esso sarà quello che si prende dal Sole (di giorno) e dalla Luna (di notte), se il primo si trova all’oroscopo, al MC, al discendente, nell’ottavo o nell’undicesimo luogo e la seconda ai quattro angoli, nel quinto, undicesimo, secondo o ottavo luogo. Se i luminari fossero altrove, il dominatore si prenderebbe invece dall’oroscopo o dalla sizigia precedente o dalla sorte di fortuna o dalla sorte del genio. Il criterio di elezione è duplice: l’avere l’astro maggiore dignità per essere il signore del segno, dei confini, della triplicità, dell’esaltazione e l’aver forza per la propria condizione accidentale nella figura; meglio poi se fa anche aspetto col significatore vitale scelto. L’oἰkodespóthj dispensa il numero di anni di vita secondo questo schema:

A questi anni vanno eventualmente sommati o sottratti gli anni propri del pianeta che osserva il dominatore: che, se è ben posto aggiunge i propri anni minori, se è mal posto li sottrae (52).

L’oikodespótês è chiamato nel Medioevo alcochoden: quest’ultimo è infatti l’astro che ha diritto sull’hylech (l’afeta degli Arabi) e che lo osserva; anche se i criteri per la scelta dell’hylech e dell’alcochoden differiscono alquanto da quelli che abbiamo accennato finora per la scelta dell’afeta e dell’oikodespótês, permane anche nella dottrina araba l’idea che l’alcochoden assegni gli anni di vita.

Esiste poi nel linguaggio tecnico astrologico greco un ulteriore termine ovvero kúrioj (kyrios) e cioè signore: kúrioj tῆj genésewj (kyrios tês ghenéseôs) è il signore della genitura. Abbiamo detto che il dominio può esprimersi sostanzialmente in due modi:

* Dominio vitale: quando il pianeta prevale sugli altri in quanto ha diritto per dignità e figura su uno dei cinque significatori vitali tolemaici, gli hylegialia loca, che il maestro alessandrino enumera quando tratta della durata della vita: il Sole, la Luna, l'oroscopo, la sorte tolemaica e la sizigia precedente la natività (53);
* Forza: quando il pianeta, grazie alla propria condizione accidentale nella genitura, ha maggior forza degli altri;

perché però un pianeta divenga il signore della genitura, l’astro cioè che significa il modo e la condotta di vita, non basta che sia il signore dell’afeta e nemmeno di tutti i significatori vitali; occorrono anche altre considerazioni. Siccome si tratta ancora una volta di stabilire una prevalenza, anche qui come per l’oikodespótês, poniamoci allora un problema di carattere diremmo spicciolo: è più importante il domicilio o l’esaltazione? E’ più importante l’ascendere o il culminare? Fermo restando infatti che entrambi i tipi di dominio sono importanti, bisogna nell’ambito di ciascuno di essi quantificare in qualche modo il maggiore o minor peso di ciascuna dignità o situazione accidentale. Gli astrologi greci non ci hanno lasciato nulla di certo al proposito. La prima testimonianza dell’attribuzione di coefficienti matematici si troverebbe invece presso il filosofo ed astronomo arabo Al-Kindî (IX sec.), che assegnò 5 punti al domicilio, 4 all’esaltazione, 3 alla triplicità, 2 al confine ed 1 al decano, dignità questa che andava a sostituirsi alla figura, presa in considerazione invece dagli astrologi greci (54).

Ma solo nel Liber nativitatum et revolutionum earum di Abraham Ibn Ezra (1.092 ca.-1.167) troviamo il metodo completo per il calcolo dell'almuten nativitatis, l’equivalente medievale del kyrios tês ghenéseôs greco (55). L’astrologo e filosofo ebreo prese in considerazione:
* Il dominio per dignità sui 5 significatori vitali [di ciascuno si osserva la longitudine e si annota il signore per domicilio (5 punti), per esaltazione (4 punti), per triplicità (3 punti), per confine (2 punti) e per decano (1 punto)];
* Le dignità che ciascun pianeta ha nel segno/grado che occupa nella genitura [il punteggio segue le modalità appena viste];
* La posizione dei pianeti nelle case, a ciascuna delle quali vengono attribuiti dei punti [prima = 12; seconda = 6; terza = 3; quarta = 9; quinta = 7; sesta = 1; settima = 10; ottava = 5; nona = 4; decima = 11; undicesima = 8; dodicesima = 2];
* Il signore del giorno e dell’ora di nascita, cui vengono attribuiti rispettivamente 7 e 6 punti; per ora si intende l’ora temporale o diseguale e dunque per sapere in quale ora si trova il Sole va considerata la sua distanza dal meridiano di riferimento; gli astrologi del Medioevo attribuivano di frequente un dominatore al giorno ed all’ora, mentre Tolemeo non ne aveva parlato, ritenendo la prassi priva di cause naturali, in quanto segue concetti mutevoli, legati ai singoli popoli, che fissano l’inizio della settimana e del giorno in modi differenti (56).

Per ciascuno dei cinque pianeti si ottiene così un punteggio totale e il vincente sarà ovviamente quello che ha ottenuto il più alto. Ibn Ezra aggiunge, in buona sostanza, agli elementi che abbiamo visto utili già per il calcolo dell’oikodespótês, altre fortitudines quali le dignità proprie, la posizione nelle case e la signoria su giorno ed ora (mai prima inseriti nel calcolo) e perviene così all’almuten nativitatis, il kyrios, il pianeta che condensa in sé il destino di ogni singolo uomo. Questo metodo venne accolto e riportato integralmente da Francesco Giuntini (1522-1590) e lo si può leggere nel nel suo Commento al Quadripartito, Libro III, Cap.1 (Regula ad Dominum geniturae extrahendam) (57).
Se l’almuten è dunque nell’accezione più generale il pianeta che vince sugli altri ed ha signoria su una determinata questione, l’almuten nativitatis è quello che impronta di sé tutta la figura: nelle sue mani è il destino dell’uomo.

***

Siamo così giunti alla conclusione del nostro breve saggio sull’ídios daímon: consci della vastità dell’argomento, ci è piaciuto tuttavia, da studiosi del passato della nostra disciplina e da astrologi classici, poter gettare su di esso un’occhiata sia pur fugace. Tra cielo e terra, tra divino e umano esiste senz’altro un ponte e l’umanità si è affannata, e si affanna per fortuna tuttora, a cercar di attraversarlo.

Genova, 16 giugno 2012
lucia.bellizia@tin.it


Note
1) Per la datazione vedi Giamblico I misteri egiziani Abammone lettera a Porfirio, introduzione, traduzione, apparati, appendici critiche ed indici di Angelo Raffaele Sodano, Milano 1984 Rusconi Editore, pagg. 40-41.
2) Abammone, nome tipicamente egizio che equivale a Ab-Amun e cioè “cuore del dio Ammone”. Nel De Mysteriis (Libro I, 1) viene definito profήtej [cfr. il testo greco a pag. 3, in Gustav Parthey, Jamblichi De Mysteriis Liber, Berolini, Prostat in Libraria Friderici Nicolai, 1857]. Profeta era nella classe sacerdotale egizia il sommo sacerdote, il capo supremo del tempio, colui che conosceva i dieci libri detti ieratici, summa delle leggi divine e della cultura sacerdotale.
3) Iamblichus de mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum, Assyriorum. Proclus In Platonicum Alcibiadem de anima atque daemone. De sacrificio et magia / Proclus. Porphyrius De divinis atque daemonibus [omnia M. Ficino interprete]. Venetiis, Aldus Manutius 1497.
4) Iamblicus De mysteriis Aegyptiorum, nunc primum ad uerbum de Graeco expressus. Nicolao Scutellio ordinis eremitarum sancti Augustini doctore theologo interprete. Adiecti de uita et secta Pythagorae Flosculi, ab eodem Scutellio ex ipso Iamblicho collecti. Romae: apud Antonium Bladum, 1556.
5) Sodano, op. cit. alla nota 1, pag. 9.
6) Rimandiamo a Sodano, che viene ritenuto uno dei massimi esperti sull’argomento, op. cit. alla nota 1, pag. 10 e segg.
7) Porfirio Lettera ad Anebo, a cura di A. R. Sodano, L’Arte Tipografica - Napoli, 1958
8) Così narra nel 405 il filosofo e storico Eunapio di Sardi nell’opera Βίοι σοφιστῶν (Bíoi sofistòn) cfr. Stéphane de Rouville, Eunape, Vies des Philosophes et de Sophistes, Paris 1878, Cap. III.
9) Anebo è nome egizio che equivale Anpu e cioè Anubi, il dio dei morti con la testa da sciacallo. E’ uno ἱerogrammateύj e cioè uno scriba sacro, colui che attende all’amministrazione del tempio, redige decreti, cura la corrispondenza col governo reale; ma egli è anche depositario dello scibile, conosce i geroglifici, la geografia dell’Egitto e tutto ciò che occorre per i sacri riti.
10) Per la datazione vedi Sodano, op. cit. alla nota 7, Introduzione, pag. XXXII; per la divisione della Lettera in due libri, Introduzione, pag. XVII.
11) I Coribanti erano in origine divinità frigie della vegetazione, poi furono associati al culto di Cibele e diedero il loro nome ai suoi sacerdoti, che erano soliti danzare, armati di tutto punto, fino a cadere in trance. La loro musica e la loro danza aveva non solo potere estatico, ma anche terapeutico: gli iniziati entravano in estasi e divenivano indifferenti al dolore, i coribantizzati, persone cioè colpite da qualche forma di manía, di possessione, venivano invece curati col rituale dei Coribanti.
12) I χaraktῆrej erano segni mistico-simbolici sui quali il profeta teneva poggiati i piedi per ricevere l’ispirazione divina. Facevano parte del rituale teurgico caldeo, ma se ne trova traccia anche in quello egizio. Cfr. Sodano, op. cit. alla nota 1, pag. 52.
13) Le ἀnágkai (anánkai) sono formule coercitive, tipiche della magia egiziana, che il teurgo rivolgeva alla divinità per piegarla ai propri voleri. Nella Lettera ad Anebo sono citate la minaccia di sconquassare il firmamento, quella di rivelare i misteri di Iside, quella di divulgare gli arcani di Abido, quella di fermare la barca del Sole e quella di disperdere le membra di Osiride [per un approfondimento rimandiamo a Sodano, op. cit. alla nota 7, Appendice I, pagg. 60-64].
14) Cheremone di Alessandria visse nel 1° sec. d. C. ed apparteneva ai più alti ranghi del sacerdozio egiziano. Nel 49 fu convocato a Roma per divenire precettore del giovane Nerone. Delle sue opere (sulla storia dell’Egitto, sulle comete e sull’astrologia egizia) non restano che frammenti nelle citazioni di altri autori. Porfirio gli attribuisce nella Lettera un’interpretazione teologica che si riduce a principi fisici, escludendo essenze incorporee ed animate
15) Krataioì ἡgemónej (“potenze governatori”) sono pianeti o divinità astrali simili ai decani che presiedono a settimane di 5 giorni. Li ritroviamo anche in Giamblico, De Mysteriis, VIII, 4, dove i due vocaboli appaiono separati da un kaí (“e”) [cfr. a pag. 266 il testo greco citato nella nota 2].
16) I Salmesχianikiá (Salmeschianicá) non sono una vera e propria opera, bensì una sorta di effemeridi o calendari astrologici.
17) La traduzione è tratta da Sodano, op. cit. alla nota 7, pag. 42.
18) Leitourgoí, liturgi o servitori dei decani erano innanzitutto le stelle fisse associate ai decani; più numerosi di essi esercitavano la propria influenza soprattutto sugli animali, sia per distruggerli, sia per produrre gli insetti che devastano i campi.
19) Gustav Georg Wolff, Porphyrii De philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Berolini, Impensis Iulii Springeri, 1856, Cap. III, pag. 38 e segg.
20) Porfirio ricorda queste peculiarità del suo maestro nella Perì Plotínou bíou (De vita Plotini), biografia di Plotino che premette alle Ἐnnadej (Enneades), l’opera nella quale ne riordinò e pubblicò gli scritti. Per il testo greco della Plotínou bíou cfr. R. Volkmann, Plotini Enneades praemisso Porphirii de vita Plotini deque ordine librorum eius libello, Vol. I, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1883. Cfr. anche Sodano, op. cit. alla nota 1, pag. XXI.
21) Porfirio, De vita Plotini, XV.
22) Sodano, op. cit. alla nota 7, pag. XXX.
23) Sodano, op. cit. alla nota 1, pag. 35
24) Versi 109 e segg.
25) La data di composizione della Supplica (Presbeía perì Χristianῶn) è stata fissata fra la fine del 176 e il principio del 177. Per una traduzione dell’opera vedi Défense du Christianisme par les Péres des premiers siècles de l’église traductions publiées par M. De Genoude, Paris, 1843 A. Royer Éditeur (passo su Talete a pag. 310). Al link http://remacle.org/bloodwolf/eglise/athanagore/apologie.htm è leggibile anche il testo greco.
26) Diogene Laerzio, Filosófwn bíwn kaì dogmátwn sunagwgή, VIII, I, 32 (Vita di Pitagora). Per una traduzione dell’opera vedi Diogène de Laerte, Vies et doctrines des Philosophes de l‘Antiquité traduction nouvelle par M. Ch. Zevort, Tomo II, Paris, 1847, Charpentier, Libraire-Éditeur (passo citato a pag. 162 e 163). Al link http://remacle.org/bloodwolf/philosophes/laerce/8pythagore1.htm è leggibile anche il testo greco.
27) Nomói Le Leggi è l’ultima opera di Platone. Rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da un discepolo, Filippo di Opunte, che aggiunse il libro finale Epinomide e la divise in 12 libri. Per il testo greco vedi Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruit Johannes Burnet, Tomus V, 1905, Oxonii E Typographeo Clarendoniano (Nomoi, IV, 717 b e segg.).
28) Per il testo greco del Sumpósion vedi Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruit Johannes Burnet, Tomus II, 1905, Oxonii E Typographeo Clarendoniano (Symposion, II, 201 d e segg.).
29) Atene fu colpita nel 430 a. C. da un’epidemia di peste.
30) (Symposion, II, 202 e, e segg.); la traduzione in italiano è leggibile in rete al link http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/testi/simposio.html
31) De Mysteriis, I, 4. Vedi Parthey, testo citato alla nota 2) pag. 11, 9-11.
32) Francesca Innocenzi, Il daimon in Giamblico e la demonologia greco-romana, 2011 Eum Edizioni Università di Macerata, pag. 16. Segnaliamo che l’intero capitolo I del testo della Innocenzi è dedicato al demone quale intermediario.
33) Marco Tullio Cicerone, De Divinatione, Libro I, XXX, 64 “Sed tribus modis (Posidonius) censet deorum adpulsu homines somniare, uno, quod provideat animus ipse per sese, quippe qui deorum cognatione teneatur, altero, quod plenus aēr sit inmortalium animorum, in quibus tamquam insignitas notae veritatis appareant, tertio, quod, ipsi di cum dormientibus conloquantur”. Vedi V. Thoresen, M. Tulli Ciceronis De Divinatione Libri, Kobenhavn, 1894, pag. 58.
34) Cfr. Suidae lexicon ex recognitione Immanuelis Bekkeri, Berolini Typis et impensis, Georgii Reineri, A. 1854 pag. 534 s. v. Ioulianój . Per il testo greco con traduzione in italiano cfr. Oracoli caldaici a cura di Angelo Tonelli, BUR, Milano 1995.
35) Giovanni Stobeo, I, 6,18. Kurt Wachsmuth, Ioannis Stobaei anthologii libri duo priores, qui inscribi solent eclogae physicae et ethicae. 2 Bände, Weidmann, Berlin 1884, pag. 89.
36) La dichiarazione di Eraclito è riporata dal filosofo Plutarco di Cheronea (46-127), Platώnika Zhtήmata (Questioni platoniche), 999c. Il testo greco dell’opera è leggibile al link http://remacle.org/bloodwolf/historiens/Plutarque/questionsplatoniquesgr.htm.
37) Senofonte, Apologia di Socrate, 12
38) Senofonte, Apomnêmoneúmata, I,1, 2-4; IV, 8,1. Il titolo è stato tradotto con Memorabilia, ma non rende bene quello originale, che significa in realtà appunti, ricordi. L’opera è una via di mezzo tra il trattato filosofico e un libro di ricordi.
39) Platone, Apologia di Socrate, 31 d
40) Platone, Apologia di Socrate, 40 b-c
41) Per il testo greco del Faídwn vedi Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruit Johannes Burnet, Tomus I, 1900, Oxonii E Typographeo Clarendoniano (Faidon, I, 107 d; 113 c e segg.).
42) Per il testo greco della Politeía vedi Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruit Johannes Burnet, Tomus IV, 1902, Oxonii E Typographeo Clarendoniano (Politeia, IV 614 b e segg.).
43) Paolo d’Alessandria, Introduzione all’Astrologia, a cura di Giuseppe Bezza, Mimesis 2000. Cfr il Glossario dei termini tecnici a pag. 189.
44) Tetrábiblos, III, 4.
45) Tetrábiblos, III, 3.
46) Leggibile nel CCAG parte I, pag. 140. Si tratta di Excerpta contenuti nel Laurentianus XXVIII, 34 ai fogli 84r - 93v ed editi da Franz Boll. [Trad. del passo a nostra cura].
47) E’ noto agli astrologi classici il senso della condizione accidentale e della forza che da essa deriva: ad esempio un pianeta veloce ha più forza di uno retrogrado; uno angolare opera meglio di uno che è in case succedenti; uno combusto o sotto i raggi è più debole di uno che compie la levata eliaca etc.
48) Tetrábiblos, III, 11.
49) Sul disaccordo tra gli studiosi sulla datazione di Antioco di Atene vedi il mio saggio I Paranatellonta nella letteratura astrologica antica di lingua greca (pag. 18 e 19), presentato nel 2010 a Genova in occasione del III Convegno dell’Associazione Culturale Apotélesma e leggibile al link http://www.apotelesma.it/upload/I_paranatellonta_nella_letteratura_astrologica_antica_di_lingua_greca.pdf.
50) Il passo è presente a pag. 119 del CCAG VIII/3 (Catalogus Codicum Astrologorum Graecorum, 1912: Codicum Parisinorum partem tertiam descripsit P. Boudreaux, Bruxelles). Si tratta di un Appendice (pagg. 111-119) a cura di Franz Cumont, che editò i Fogli 232-237 del Codex Parisinus gr. 2425 (manoscritto cartaceo in 285 fogli del XV sec. proveniente dalla Biblioteca di Caterina de’ Medici).
51) Traduzione a nostra cura. Debbo alla cortesia di Chris Brennan l’aver potuto acquisire la fotocopia delle pagine di cui alla nota 50), in quanto il CCAG VIII/3 non è ancora interamente a mie mani, lacuna alla quale mi riprometto di porre rimedio appena possibile.
52) Cfr. Paolo d’Alessandria, Introduzione all’Astrologia, a cura di Giuseppe Bezza, 2000, Mimesis Editore, pagg. 159-162. Alla traduzione del capitolo segue il commento esplicativo che il filosofo Olimpiodoro tenne nella scuola di Alessandria a metà del 564.
53) Tetrábiblos, III, 11.
54) Morgenländische Forschungen, Festschrift H.L. Fleischer zu seinem funfzigjährigen Doctorjubiläum am 4. März, 1874, gewidmet von seinen Shûlern, F.A. Brockhaus, 1875 Leipzig (O. Loth, Al-Kindî als Astrolog, pagg. 190-191, nota 3).
55) Abrahe Avenaris Iudei Astrologi peritissimi in re iudiciali opera: ab excellentissimo Philosopho Petro de Abano post accuratam castigationem in latinum traducta, Venetiis 1507; [contiene: Liber de consuetudinibus in iudiciis astrorum et est centiloquium Bethen breve admodum, Liber electionum, Eiusdem de horis planetarum, Liber interrogationum, Liber luminarium et est de cognitione diei cretici seu de cognitione cause crisis, Liber coniunctionum planetarum et revolutionum annorum mundi qui dicitur de mundo vel seculo, Liber nativitatum et revolutionum earum, Tractatus insuper quidam particulares eiusdem Abrahe, Liber rationum, Introductorium quod dicitur principium sapientie]. In particolare Liber nativitatum et revolutionum earum, Fo. 46v.
56) Per la settimana planetaria e per un approfondimento dell’argomento cfr. le traduzioni di alcuni testi riportati in Giuseppe Bezza, Arcana Mundi, BUR, 1995, Volume I, pagg. 475-517.
57) Speculum Astrologiae, universam mathematicam scientiam, in certas classes digestam complectens. Autore Francisco Iunctino Florentino S.T.D. Accesserunt etiam Commentaria absolutissima Quadripartiti Ptolemaei libros etc. Tomus Prior, Lugduni, In Officina Q. Phil. Thinghi Florentini, 1583 (pag. 141-142).