LA DANZA DEI PIANETI
DIECI DÈE DAŚA MAHĀVIDYĀ
di Marialuisa Sales

Con gioia profonda e con un sentito ringraziamento verso l’Associazione Jayavidya presento il brano di danza classica dell’India in stile Odissi “Daśa Mahāvidyā”, appartenente al repertorio di Guru Deb Prasad Das. Proposi per la prima volta nel 2015 questa danza, inedita in Italia, in occasione della Giornata Internazionale della Danza indetta dall’UNESCO presso Palazzo Primavera di Terni. Da allora questa danza è stata eseguita nella sua forma circolare-multifocale solo in un’altra occasione a Roma. “Daśa Mahāvidyā” è una struttura sapiente fondata sulla simmetria e la ripetizione, ove l’espansione nello spazio trova la sua unica ragion d’essere nel dipartirsi e nel tornare a quel Silenzio proprio dell’arte sacra dell’India.

LE DIECI DEE DAŚA MAHĀVIDYĀ

Nella mitologia hindu Dieci Dee della Grande Sapienza (Daśa Mahāvidyā) rappresentano un percorso realizzativo dell’essere con implicazioni macrocosmiche, rituali e metafisiche. Dopo il declino del Buddismo in India (tra il V e l’VIII secolo), Śakti indù e buddiste sono state gradualmente combinate per formare questa lista di dieci divinità che giungono ad essere conosciute come gruppo nel primo periodo medievale (dopo il X secolo d.C.), benché ovviamente alcune di esse siano di gran lunga precedenti (come nel caso di Kālī). Commenta in tal senso Jitamitra P. Singh Deo nel testo “Tantric Art of Orissa”:

“Il culto delle Daśa Mahāvidyā (dieci aspetti irati della Dea) rivela una forma estrema del Tantrismo. Si reputa che siano dieci in numero e che la scelta della decade sia stata effettuata perché concordi con le dieci incarnazioni di Viṣṇu. Le Mahāvidyā sono la fonte di tutto quello che necessita essere conosciuto e costituiscono le divinità più importanti del Tantrismo”[1]

Le Dieci Dee hanno differenti attributi e talvolta la sequenza può variare nella sua parte mediana; tuttavia, nelle fonti contemporanee, le divinità e l’ordine più comune è il seguente, che si ritroverà anche nella danza descritta in seguito[2]:
1) Kālī:la Dea Nera
2) Tārā:“la Stella”, la Dea che guida attraverso le avversità
3) Śoḍashīo Tripurasundarī: Colei che è amabile nei Tre Mondi
4) Bhuvaneśvarī: Colei il cui corpo è il Creato
5) Bhairavī: la Terribile
6) Chinnamastā: la Dea che si auto-decapita
7) Dhūmāvatī: la Vedova
8) Bagalamukhī: la Paralizzatrice
9) Matāngī: la Dea dei fuori-casta
10) Kamalā: la Dea del Loto

Le prime due divinità della decade sono specificatamente le “Mahāvidyā”, le cinque seguenti vengono considerate le “Vidyā” e le ultime tre “Siddhavidyā”. I testi concordano che le Mahāvidyā siano in realtà una sola Dea, circostanza sostenuta anche dal loro mito d’origine, che sottolinea come esse siano sorte dall’unica Dea Kālī (o Durgā) di cui sono solo aspetti peculiari, avatāra. Commenta in questo senso David Kinsley, autore del noto testo Tantric Visions of the Divine Feminine - The Ten Mahavidyas”:

“Gli inni dedicati ad ogni Dea particolare concordano nel suggerire che un adepto che approfondisce una qualsiasi delle Mahāvidyā, troverà tutte le altre in Ella stessa”[3]

Senza volerci addentrare in una dettagliata descrizione di ognuna delle Potenze, argomento di una vastità sconcertante non certo esauribile in un articolo, ne esaminiamo brevemente la loro funzione ontologica.
(Le foto di ogni Mahāvidyā, di proprietà dell’Autrice, sono state scattate nel 2015 nel distretto di Puri. L’apparente aspetto naïve dell’immagine è correlato alla profondità dei suoi contenuti, espediente assai frequente nell’arte sacra indù)

Kālīdi colore nero e terrifica, considerata pura estasi ed uno stato di perfetta soddisfazione, quando ciò che si ha è esattamente quello di cui si ha bisogno. E’ aldilà del senso di positività e negatività.

Tārāè lo stato successivo ove si manifestano le prime intuizioni, le prime idee in forma propositiva. Ella è anche vista come Brahmā, la fonte originaria del molteplice ed è anche associata alla fame, poiché ogni essere che vive ha fame.

Quando la Dea appare come Śoḍashīl’energia discende nei cinque sensi, per questo si dice che Ella sia accompagnata dai cinque Dèi.

La Dea si manifesta poi, nel suo assumere nome e forma, come Bhuvaneśvarī, la Signora del mondo fenomenico. Ella rappresenta le forze che costituiranno il mondo materiale ed appare in ogni unità della Creazione, cosicché il processo di moltiplicazione può continuare senza ostacoli.

Successivamente la Dea si rivela come Bhairavī, Colei che modella le apparenze individuali. E’ sotto la sua influenza che l’individuo agisce per la pienezza delle proprie soddisfazioni mondane

A questo punto, a metà del percorso, la Śaktideve separarsi da sé stessa: questo atto è rappresentato dalla Dea Chinnamastā. Ella si decapita in modo che il suo veicolo possa bere il sangue che sgorga dal suo collo. Ai suoi lati stanno due nāyikā (attendenti femminili), Ḍākinī e Varnini, che rappresentano nome e forma. Rappresenta il volgersi all’interno in eterna unione con il processo di autoconoscenza, ivi rappresentato dalla testa (la “Corona della Creazione”)in mano. Esternamente continuano le forme precedenti caratterizzate dalla prensività (ho fame, sete, voglio questo e quello..)

Successivamente la Śakti rende l’individuo dimentico di tutto ciò, ed egli si vede nuovamente calato nelle pene di morti e rinascite continue della propria spinta desiderante. Il soggetto a questo punto è “la Vedova” Dhūmāvatīa cui manca sempre qualcosa. Questa Dea rappresenta il punto più basso di discesa della Śakti, caratterizzata da un aspetto repellente mentre monta un carro trainato da corvi. La Dea tiene però in un mano un setaccio, invitando l’adepto a filtrare ciò che costituisce davvero l’Essenziale.

Interviene quindi Bagalamukhī, con la sua clava in mano: Ella rammenta che la nostra essenza è quella di Brahmā. Con una mano tiene la lingua, il nostro mentale. Bagalamukhī è colei che instilla nell’individuo il senso di andar oltre le propensioni mondane ed i pensieri incontrollati che trascinano in basso.

Dopo appare Matāngī, la Signora delle Foreste, perennemente ebbra, i cui occhi manifestano l’assunzione della “giusta dose di vino”, ovvero la coscienza si attesta sulla capacità di mantenere quello spazio di distanza in cui le emozioni si dispiegano senza più travolgere l’adepto.

In conclusione la Dea si manifesta come Kamalā: pura Coscienza, bagnata nell’oceano calmo della gioia e della tranquillità. I quattro elefanti sono la conoscenza, la pienezza, la virtù e la realizzazione. Ella è contemporaneamente Colui che gioisce e ciò di cui viene gioito.

LE DÈE DAŚA MAHĀVIDYĀ COME DANZA ASTROLOGICA

Il brano di danza denominato DaśaMahāvidyā appartiene al repertorio della Guru Vijayalakshm iDas di Puri, allieva storica di Guru Deb Prasad Das, uno dei tre grandi maestri rifondatori dello stile di danza classica dell’India nota come Oḍiśī (Odissi). Maestra attiva anche come danzatrice sino alla metà degli anni ’90, Vijayalakshmi è anche compositrice ed ha sviluppato uno stile incentrato su tematiche originali fortemente connesse ed ispirate alla tradizione Śākta.

La danza classica Odissi, originaria della regione dell’Orissa (Odisha), trova - analogamente ad altri stili classici - il suo riferimento negli antichi trattati indù di danza e drammaturgia, fra cui il Nātyaśāstra. In esso si narra che Brahmā, il Creatore, insegnò al saggio Bhārata la scienza dell'arte scenica, affinché gli uomini raggiungessero la pienezza spirituale attraverso un metodo meno astratto di quello descritto nei Veda. Per secoli Devadasi e Mahari, sacerdotesse-danzatrici dedicate sin dall'infanzia ad una divinità, hanno contribuito al culto quotidiano con la danza poiché, secondo i testi sacri, nessuna offerta, nessuna preghiera è più gradita agli dèi. Il termine “Odissi”, neologismo creato intorno alla metà del secolo scorso, indica la ricodificazione di quella coreusi liturgica grazie alla confluenza stilistica delle due tradizioni delle Mahari (danzatrici consacrate al culto di Jagannātha) e dei Gotipua (giovanissimi danzatori che per secoli si sono esibiti all’esterno delle mura del tempio). Richiede lunghi anni di apprendimento di una disciplina rigorosa che alterna grazia e vigore, concentrazione e un infallibile senso ritmico. Analogamente ad altre danze classiche del subcontinente, le sue caratteristiche stilistiche sono: la precisione dell'esecuzione, che determina nello spazio un sistema di cerchi e triangoli, la fermezza del gesto e la sapiente costruzione geometrica che, analogamente e certe forme di Yoga, crea pose le cui linee costruttive - similmente alla statuaria templare - hanno il centro nell'ombelico del danzatore.

L'esecuzione alterna brani di danza pura, senza interventi mimici, e brani di abhinaya, danze pantomimiche che elaborano testi poetici e mitologici. I mudrā (più propriamente hasta), gesti con cui si esprime il danzatore possono essere imitativi, evocativi o puramente simbolici. La danza Odissi rappresenta oggi sulle scene mondiali un complesso repertorio in cui l’arte coreutica, la statuaria, la musica, la poesia, trovano la loro unicità in una sapiente composizione matematico-geometrica che offre il corpo del danzatore come sacrificio e dono agli dèi.

Secondo la tradizione il percorso tecnico prevede innanzitutto l’apprendimento di dieci movimenti considerati “Tāṇḍava”, cioè ispirati dall’energia maschile, e altrettante variazioni definite “Laasya”, cioè pervase dall’energia femminile. I dieci movimenti “maschili” prendono il nome di Chowk, e sono ispirati all’iconografia della mūrti del dio Jagannātha. Il Chowk, termine letteralmente traducibile sia come “incrocio” che come “quadrato”, è contraddistinto dall’avere le linee costruttive (diagonali) della posa che si incrociano nell’ombelico del danzatore, iscritto quindi in un maṇḍala vivente. La seconda decade di movimenti, chiamati Tribhaṅga (cioè tre inclinazioni) sono contraddistinti dall’asimmetria posturale tipica dell’iconografia dei personaggi femminili dei templi. I brani di danza Odissi risultano quindi dalla combinazione di queste due posture che si alternano incessantemente, richiedendo al danzatore una grande concentrazione e capacità di cambiare rapidamente le qualità energetiche.

Il brano sulle Dieci Dee, danza propria e distintiva dello stile di Deb Prasad Das (in Tala Jati- ritmo di sette - e Rāga Durgā), era stato inizialmente concepito da Guru Vijayalakshmi per dieci ballerine, ognuna abbigliata in un colore diverso (adeguato all’elemento planetario proprio della divinità) ed adattato al contesto del teatro all’italiana. Dopo un’introduzione in cui le dieci Mahāvidyā vengono rappresentate una dopo l’altra in sequenza, l’assetto compositivo della danza le analizza una per una sempre con la medesima struttura: una breve descrizione invocatoria della specifica Dea (gli attributi, le caratteristiche..) che termina ricordando al pubblico come ogni Mahāvidyā sia consorte di Śiva, rappresentato continuamente in diverse pose. Questa breve parte interpretativa termina con due anjali (omaggio di congedo) ed è seguita da un breve intermezzo ritmico che vivacizza l’esecuzione e consente al danzatore il continuo cambio di direzione. Nell’epilogo finale, come soventemente accade nei brani tradizionali, viene citato l’autore del testo che, dai miei dialoghi con la Maestra, si evince essere stato un bramino che prestava servizio nel secolo scorso presso l’importantissimo Tempio di Jagannātha a Puri:

“Un bramino del tempio di Jagannāthaha scritto quest’ode e chiunque la legga o l’ascolti viene vivificato. Siano benedetti questi dieci corpi”

Le Dieci Dee sarebbero più o meno concordemente associate, dalle varie fonti, ai Navagraha e a Lagna nel modo seguente:
1) Kālī: Saturno (Śani, colore nero)
2) Tāra: Giove (Bṛhaspati, colore giallo)
3) Śoḍashī: Mercurio (Budha, colore verde)
4) Bhuvaneśvarī: la Luna (Candra, colore bianco)
5) Bhairavī: Lagna (l’ascendente)
6) Chinnamastā: il nodo lunare Nord (Rāhu, colore blu scuro)
7) Dhūmāvatī: il nodo lunare Sud (Ketú, colore grigio)
8) Bagalamukhī: Marte (Maṅgala, colore rosso)
9) Matāngī: il Sole (Sūrya, colore rosso)
10) Kamalā: Venere (Śukra, colore bianco)

Il brano delle Dieci Dee, che ho avuto il grande privilegio di apprendere nel 2014 esclusivamente nella trasmissione Tradizionale individuale a casa della Guru, rappresenta quindi uno dei pochi brani di danza classica dell’India ancora connessi all’antica funzione templare della coreusi.

Marialuisa Sales


Note
[1] “Tantric Art of Orissa” Jitamitra P. Singh Deo, Kaplaz Publications, Delhi, 2001, pp 69-70
[2] Per l’elenco delle divinità e la loro sintetica definizione si veda “Tantric Visions of the Divine Feminine - The Ten Mahavidyas”, David Kinsley, Univ of California Pr 1997, pp 5-6
[3] “Tantric Visions of the Divine Feminine - The Ten Mahavidyas”, David Kinsley, Univ of California Pr1997, pp 5-6